Sabrina Pantacchini.

L’arte con la pittrice Sabrina Pantacchini ha iniziato un lungo viaggio di ritorno a se stessa dall’esilio. Non nego che l’esilio ci appartenesse come la terra promessa, il luogo dove l’artista poteva decostruire in libertà i sui pensieri apparenti e le sue proteste sociali, dove l’arte si ritenesse giunta al compimento della propria storia sciogliendosi nell’ideologia. Sabrina Pantacchini impersona comunque l’artista nuovo che è tornato dall’esilio con una decisione di un linguaggio, non dedicandosi ad alcuna risorsa che non nascesse dalla necessità di ascoltare le ragioni primarie dell’espressione, ma di dare all’arte un colore ed un’ immagine. Il dipingere di Sabrina vuole abitare nell’arte, farne il suo tempio e la sua assemblea, insediarsi sulle pareti delle tele per pronunciare la radice radicale dell’arte. Egli è risalita alla memoria della loro memoria, alle madri del colore, ed  è emersa da questo limbo celeste con una pronunzia vergine della luce, del campo, della sostanza pittorica. I colori si fronteggiano con i loro accenti primari e urtano senza penetrarsi, è una battaglia tra angeli sui campi arati della forma. I colori della terra e della natura non esistono, vivono solo quelli dell’anima e dell’arte tra cui scontri si accendono ma con successi luminosi. In Sabrina Pantacchini, così la pittura diviene il  luogo della totalità delle
trasformazioni, delle emozioni, delle sensazioni, delle percezioni, il luogo, insomma,
dove si materializza e sostanzia il suo essere donna ed artista, il luogo dove tutto è
possibile e dove il pensiero, il fiume della memoria, la vivacità dei sentimenti, la
istanza emozionale divengono tramite spirituale un  motivo dominante per la
percezione del messaggio. Le opere di Sabrina Pantacchini ci inviata ad entrare nella normalità estraniante dal reale, ad approfondire tali condizioni ed guardala sempre ad occhi aperti. È inutile fantasticare, chiudersi sonnecchiando dentro il proprio mondo fantastico: è la stessa realtà ad acquistare il senso dell’estraneità man mano che spalanchiamo il nostro sguardo meravigliato sul mondo. Anzi più apriamo e sgombriamo la nostra vista da tutti i fantasmi notturni e personali, in più entriamo in contatto in un universo dai mille colori. Questa artista attinge ad un universo fatto da piccole presenze che non hanno il carattere. E pure l’immagine acquistano un senso che portano l’oggetto fuori da ogni contesto abituale e aprirlo alla possibilità di relazioni inedite che gli conferiscono un nuovo statuto di diversa identità. Sabrina Pantacchini pratica una vera e propria opera di corteggiamento sulla attenzione dello spettatore, invitandolo ad entrare nel giardino delle delizie, fatto di tanti colori. Qui l’occhio è  impunemente, affascinato dal silenzio che lo circonda. Dopo l’iniziale corteggiamento, l’attenzione dello spettatore è ormai prigioniera dell’immagine, arresa al potere di una familiarità che è riuscita a tramutarsi in estraneità, a sopportare una metamorfosi. La metamorfosi è possibile perché nell’immagine regna il potere del  linguaggio che tramuta a propria immagine e somiglianza di qualsiasi sembianza. Si mette al servizio di tale mutazione, lavora allegramente, seguendo le proprie regole. Ormai lo sguardo non può più tornare indietro, non può indietreggiare davanti la scena che si presenta lampante e senza possibilità di equivoci e di censure. L’occhio entra nella scena, potendo fin dall’inizio controllare ogni distanza, intravedere ogni dettaglio. La pittura delle pittrice Sabrina Pantacchini  è fatto dunque di corpi astratti e di elementi colorati, e di stati frammentari solidi ed altri unitari e morbidi.

                                                                                                             Salvatore Marra Critico D'Arte






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